“Ciò che mangiamo è una delle decisioni più importanti che prendiamo ogni giorno”. Con questa frase si apre la mostra “FOOD: Bigger than the Plate”, appena conclusasi al Victoria and Albert museum di Londra. L’esposizione, un’esperienza visiva e sensoriale a tutto tondo, investiga il rapporto tra uomo, cibo e natura.
Qual è il legame tra cibo, uomo e società?
Catherine Flood e May Rosenthal Sloan, co-curatrici della mostra, spiegano come la potenza del cibo stia nella capacità di modellare il mondo in cui viviamo sia nella misura in cui lo condividiamo, creando società, sia nel modo in cui lo cuciniamo, creando cultura e tradizione.
L’alimentazione assume una valenza fondamentale, poichè rappresenta un atto attraverso il quale l’uomo modifica se stesso, il proprio corpo e di conseguenza interviene nella relazione con lo spirito e la mente.
Quale sarà il nostro futuro alimentare? Che sapore avranno i nostri cibi domani? Sembrano chiedersi nello svolgersi del percorso espositivo.
La mostra sul cibo del futuro: il percorso
Gioco, ironia e stupore colorano l’atmosfera dentro cui si snoda il percorso espositivo, composto da oltre 70 progetti di artisti e designer di ogni provenienza che, attraverso performance, video ed esperienze interattive, ci trascinano in un mondo fiabesco suddiviso attraverso le fasi principali del viaggio che il cibo percorre ogni giorno: “compost”, “agricoltura”, “commercio” e “consumo”.
I rifiuti
Con sorpresa, lo spettatore vede iniziare il suo percorso sensoriale nella sala dedicata allo smaltimento. “Se sei un consumatore, sei anche un produttore”, recita una targa. E non solo attraverso il nostro sistema digerente, ma anche e soprattutto per tutte le rimanenze del sistema di produzione del cibo che appartengono a quel mondo sotterraneo che vogliamo nascondere sotto al tappeto o in altre parti del mondo, più spesso: quello dei rifiuti.
“I rifiuti non devono essere la fine del percorso. Possono essere l’inizio di una nuova avventura”. Non si parte dalle tavole imbandite e luccicanti, ma dal compost maleodorante.
Vengono presentati, dunque, una serie di esperimenti creativi di ricercatori e designers che, accantonate plastiche derivate da carbon fossili e altri materiali non biodegradabili, hanno ridato vita a materiali considerati di scarto.
L’agricoltura
La seconda fase della catena di produzione è l’agricoltura. In gran parte d’Europa, tra il 1700 e il 1800, l’enorme sviluppo urbano portò a screditare per anni il mondo rurale, che adesso, a un passo dal collasso climatico, viene, per fortuna, rivalutato.

Hk Farm è un collettivo di artisti, designers e agricoltori che coltivano prodotti biologici sui tetti di Hong Kong, riappropriandosi di spazi urbani e risanando il divario tra cibo consumato e spazio vissuto. Ma si parla anche di allevamento e di specismo: come stiamo distruggendo l’ambiente circostante? Come faremo quando saranno scomparse tutte le api? L’artista Lura Allcorn crea, a tal proposito, dei provocatori strumenti per permettere l’impollinazione manuale, fiore per fiore.
Il commercio
Si cambia sala, si cambia argomento: si parla di packaging e trasporto. La maggior parte del cibo che consumiamo ogni giorno proviene da molto lontano e, perfino quando arriva tra le nostre mani, nell’atto stesso dell’acquisto, è separato da noi da contenitori di carta e plastica.
Uli Westphal, nel collage Supernatural, combina immagini tratte da pubblicità realmente esistenti in cui animali felici pascolano dentro ridenti scenari. L’artista denuncia il fatto che creiamo un rapporto psicologico ed emotivo con un immaginario creato a tavolino negli uffici marketing, che fa sì che possiamo dimenticarci delle dinamiche di sofferenza e ingiustizia legate a quel cibo.
Cogliamo la frutta dagli scaffali come dagli alberi, ma come è possibile? Banana story di Johanna Seelemann rappresenta il passaporto di una singola banana che ha viaggiato quattordici giorni, per 8.800 km, passando attraverso 33 paia di mani. Cosa significa “Made in Ecuador” se dimentichiamo la natura transnazionale della provenienza del cibo?

Il consumo
Eccoci, infine, arrivati al consumo: la prima domanda che ci viene posta è: “quanto inquiniamo consumando cibo?”
Secondo Skipping Rocks Lab un milione di bottiglie di plastica vengono vendute ogni minuto. Diverse soluzioni innovative vengono proposte. “Oooh!” per esempio, è una capsula commestibile fatta di alghe che, riempita di liquido, viene ingerita senza creare rifiuti.

La mostra s’interroga anche sul valore sociale del consumo di cibo: ad esempio, rispetto allo stigma della magrezza del corpo femminile oppure su come viene organizzato lo spazio del pasto in contesti più comunitari, in contrasto con l’alienazione dei pasti individuali e dei sandwiches mangiati di fretta nelle metropoli.
“Bigger than the plate” è una mostra che ci lascia, nonostante i dolci aromi delle degustazioni al suo interno, con l’amaro in bocca.
Le brillanti proposte sviluppate attraverso le sale danno speranza e ci indicano una via verso un uso responsabile della tecnologia.
Uscire dall’”Albert and Victoria”, fendendo il freddo vento di Londra, ci ricorda quanto la realtà sia ben diversa: migliaia di bottiglie, migliaia di bovini, migliaia di alberi in fiamme, migliaia di barili di petrolio nell’oceano.
Come potranno dei semplici progetti fermare la marea del cambiamento climatico? Come un consumo più consapevole può essere accessibile alle fasce più basse della popolazione che vivono ancora, ogni giorno e sulla propria pelle, le catastrofiche conseguenze dei danni che creiamo per soddisfare i nostri bisogni? Come possiamo riappropriarci di un legame antico col pianeta che abbiamo dimenticato? Queste le domande su cui “Food – Bigger than the plate” ci invita a interrogarci con urgenza.